20180113

#1842 (Elegia giapponese #9)

Quando si parla di Tokyo usare la metafora dell'alveare o del formicaio non renderebbe onore e giustizia alla sua complessità.
Sarebbe più corretto parlare infatti di una serie di alveari o formicai interconnessi, dove la perfetta organizzazione di ognuna delle varie realtà sincretiche non contrasta e anzi dialoga in un adattamento continuo con quella di tutte le altre.
Ma anche questo paragone è improprio, perché alla struttura funzionale di queste macchine comunicanti si aggiunge e integra quella meno controllabile e fondamentalmente caotica non solo e non tanto del cittadino, che—regolato da leggi etiche e comportamentali di base precise e condivise anche se non scritte—è tutto sommato a sua volta uno di questi sistemi pressoché perfetti, quanto del turista che, a dispetto di quello che dovrebbe essere il suo ruolo—ospite interessato a conoscere una nuova cultura—quasi sempre con molta difficoltà si adegua a sistemi di segni e regole diversi da quelli a cui è avvezzo, generando un'entropia che solo un organismo socio-urbanistico abituato a gestire in ogni istante una quantità enorme di variabili, quale è appunto Tokyo, sarebbe capace di tenera a bada in modo da evitare il collasso.
Tokyo sembra anzi sopravvivere proprio grazie a questo equilibrio instabile e perciò flessibile, a questa fluidità che pare essere parte costituente della sua cultura e senza la quale tutto si fermerebbe, crollando sotto al peso della sua stessa complessità.
Forse è tutto sommato più sensato non usare alcuna metafora, e limitarsi piuttosto a constatare che la città è fatta di esseri umani che si comportano non come tutti gli esseri umani ma come una determinata specie, adusa ai forti contrasti tanto da riuscire sempre ad evitare che diventino irrisolvibili contraddizioni.

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