20170331

#1670

Quando l'ospite fu fatto accomodare nel salone, io e mia sorella lo osservammo per un po' nascosti dalle tende delle porte vetrate che davano sullo studio.
Era la prima persona di colore che vedevamo e, a differenza dei racconti che si facevano sulle genti dell'Africa, costui era perfettamente vestito, con un tabarro di plaid che copriva un impeccabile completo in tweed, e un cappello a tesa larghissima. Sebbene i denti fossero alquanto gialli e malandati e i capelli ricci sembrassero quasi infeltriti e avessero folte sfumature grigie, mentre misurava la stanza a grandi passi decisi e aspettava di farsi annunciare il suo aspetto era dei più eleganti.
Comprendevo l'eccitazione negli occhi di mia sorella, ma la mia non era da meno. Quando mi fu presentato e lo introdussi nello studio, notò subito l'ordine sbagliato di alcuni oggetti sui tavoli che avevo fatto preparare espressamente per il suo arrivo, il bicchiere inclinato nel verso sbagliato, la piuma nel portapenne di peltro, la roccia rivolta a ovest... tutti esami superati in modo brillante, in modo da poter passare senza altro indugio al tavolo su cui stavo lavorando al momento, quello più importante, per aiutrarmi col quale il nostro ospite era stato convocato da mio padre.
Ma è con mia sorella che lo straniero sembrò instaurare il rapporto più significativo: quella birbante continuava non solo a chiamarlo per nome—cosa che a lui pareva far piacere—ma anche, contro ogni logica sia dell'onomastica che della buona creanza, a pronunciare la doppia elle alla spagnola—cosa che, come fosse uno scherzo tra amici di lunga data, sembrava piacergli ancora di più.

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