20181123

#1943

È sempre così: si prende una cosa antica, usata bene, invecchiata meglio, la si prende e la si torna ad usare, probabilmente con attenzione, magari anche con amore, e la si consuma, più che in passato, la si rovina, tanto che sembra che la si sia recuperata proprio e solo per questo scopo, per decretarne l'ultima fine.
Indumenti tessuti con cura, destinati a durare, fatti per l'uomo senza mezzi, che li ha indossati con rispetto, ora diventano in un attimo stracci e pezze, oggetti privi di valore e ormai da buttare, o alla meglio pronti per i cassonetti gialli.

Così, allo stesso modo, si prende qualcosa di vivo, diciamo una pianta (ma vale anche per un animale, per non parlare di un essere umano) e la si vuole per sé, la si usa contro natura, la si riempie di quel che si pensa sia amore, fino a inondarla e soffocarla a un tempo. Impauriti dal proprio eccesso di zelo, allora la si fa asciugare, la si prosciuga fino ad essiccarla, e alla fine non si sa più cosa fare: troppo amore? Troppo poco? La si lascia crescere per conto suo, sperando nell'autosufficienza, puntando sull'indipendenza, confidando nella tanto decantata resilienza, e quella si ammala per mancanaza di attenzione.Cosa rimane poi? Tornare ad amarla, certo, ma quanto? Qual è il limite? Come si evita di sopraffarla, seppellirla?
Le foglie prima verdi, ora irrancidiscono marroni. Le radici prima deboli e poi forti, ora sono fradice. Non aveva più senso lasciare la pianta nel vivaio? Non sarebbe meglio che crescesse solo in un bosco?

E adesso la quercia piantata per la nascita del futuro signore della casa è improvvisamente impallidita, e come di fronte a un evento spaventoso incanutiscono d'un tratto i capelli di un uomo nel fiore degli anni, così da una notte all'altra l'alberello ha mutato il colore delle sue foglie, tanto da apparire fin da lontano, ad essere fatalisti, come un presagio di sventura.

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