20180403

#1895

Cosa fare in questi casi? Restare in cabina a fissare il mare che si erge a tratti in verticale fuori dalle paratie del cargo? O salire in coperta e partecipare della paura e dell'empatia collettiva?
Onde blu petrolio e venate di bianco come grasso spumoso, alte diversi metri e simili a vette frastagliate, in cui il nostro vascello non è che un parallelepipedo di metallo in balia di un orizzonte che cambia continuamente la sua inclinazione.
Fuori non è meglio: le proporzioni non sono dalla nostra, e l'oceano non è più un semplice cerchio d'acqua infinita ma una distesa senza più dimensioni che si estende in ogni direzione. Il cargo ondeggia sulla linea della sua lunghezza, finché un'onda trasversale non viene ad alzare la prua di modo che tutto lo scafo si alza quasi in verticale.
Gettati a poppa come dadi senza fortuna, vediamo la nostra fine sotto di noi, nell'ombra tra la chiglia e la superficie del mare, nella velocità incontrovertibile con cui la carena scende attraverso il vuoto che si è creato e che ora ci inghiotte richiamandoci a sé.
Diverse ore dopo, mentre a galla resta solo il corredo inutile della nostra vanità, non ci resta che fare le presentazioni, gente che si era vista solo di sfuggita unita ora dal destino comune, sorrisi lanciati come salvagenti, nomi snocciolati come corde, nudità che ormai sarebbe inutile provare a nascondere.

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