20170314

#1636/1637/1638 (Trilogia aeroportuale)

C'è davvero poca gente in partenza col mio volo. Del resto mi chiedo cosa vada a fare a Düsseldorf questa allegra e affiatata famigliola, papà, mamma e due bambini un po' freak ma fondamentalmente molto belli. Quando iniziano a parlare in tedesco i miei superficiali preconcetti mi assalgono tutti insieme appassionatamente.

Non è vero che, come ha scritto Adam Gopnik, i "fiori di ghiaccio" contro cui si scagliò con impeto illuminista persino Goethe, nella nostra epoca ipertecnologica non si possano più vedere. Mi è capitato proprio stamattina guardando le Alpi innevate dall'oblò dell'aeromobile su cui viaggiavo diretto forse non a caso verso il nord tutto invernale e irrazionale dei dipinti di Caspar Friedrich. Solo che più che a fiori, quelli che si formano sulla plastica che mi chiude al riparo dal freddo sembrano pontili di un gigantesco e proteiforme porto metropolitano visto da distanze satellitari: moli che generano altri moli come scheletri frattali, organici, ma privi di navi all'attracco—così come poetica germanica vuole.

È la prima volta che, da un aereo in volo, ne vedo un altro volare: la traettoria, la dimensione e la prospettiva che sembrano mutare a velocità incommensurabile, le scie bianche curvate in modo imprevedibile, l'idea—che mi sfiora solo in questo momento—dell'impatto inevitabile.

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