20140605

#334

Una delle cose in cui sembravano credere più fermamente è che lo spirito di quel che mangiamo resti improgionato nel corpo, almeno fino al momento di riespellerlo in forma di escrementi. Una difficile digestione era segno che lo spirito rifiutava l'idea di abbandonare l'ospite, e così il mondo, e quanto più l'alimento ingerito era indigeribile, tanto più voleva dire che lo spirito in esso fino ad allora contenuto era forte. E gli incubi che ne derivavano erano ovviamente messaggi diretti di quello spirito. In questo senso l'indigestione dava vita a una forma di divinazione, e come altre popolazioni assumevano allucinogeni e stupefacenti per giungere allo stato di trance e interagire con gli spiriti, così gli scamani di queste tribù mangiavano quanto più potevano per entrarvi in contatto quando questi erano ancora bloccati tra questo mondo e quell'altro, ed erano quindi più disposti a parlare. Facevano addirittura a gara a chi mangiava di più, perché più forte era l'uomo che riusciva a contenere lo spirito più forte. Rutti e flatulenze, va da sé, erano visti come forme di incontinenza, e quindi testimoniavano una certa inesperienza o incapacità dello sciamano. D'altro canto quelli più esperti erano capaci di trattenere lo spirito per giorni e giorni, e di liberarsi non prima di qualche settimana, se non di qualche mese. Durante il periodo di possessione tutti, anche gli uomini più comuni, assumevano atteggiamenti peculiari degli animali (ma anche dei vegetali) ingeriti, e fu su questa specifica caratteristica della credenza, così facilmente assoggettabile a una possibile capacità attoriale, che decidemmo di concentrare i nostri studi sul campo.

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